venerdì 24 maggio 2013

In ricordo di Moro a 35 anni della sua scomparsa
di Marcello Delfino

E’  qualcosa di più di una sensazione, ciò per cui riteniamo che, su quella che è stata la vicenda più tragica della nostra repubblica, ci sia ancora molto di non detto, troppi angoli oscuri che ci negano una verità che fino in fondo non conosciamo ancora. Basta, d'altronde,  scorrere l'ultima fatica letteraria di Ferdinando Imposimato, storico giudice istruttore del caso Moro, per avvalorare dubbi e misteri (“I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia” - Newton Compton Editori). Sarà certamente il tempo, come per ogni fatto della storia, ad aiutarci a trovare, come auspicava Giovanni Moro, una verità storica credibile capace di fugare suggestioni conseguenti a troppe domande senza risposta.
A 35 anni dalla sua morte ci compete, intanto,  riconoscere lo slancio ideale ed il realismo strategico con cui Moro affrontava i temi della politica, e non solo, molti dei quali sono ancora attuali e non risolti, con quella particolare attenzione verso la persona, che viene prima anche della politica, secondo le fondamenta della cultura cattolico democratica che Moro interpretava con intelligenza e passione. Aldo Moro è stato l’uomo politico più lungimirante della nostra storia repubblicana per una reale capacità di osservazione di quanto si muoveva nella società. Si serviva di una grande capacità di programmare ogni passaggio dell'azione politica, che non era mai finalizzata a se stessa, ma rimandava ad una concezione articolata che metteva la politica al centro della vita civile senza negare l'importanza di ciò che precede la politica stessa. Credo che sia del tutto riduttiva l’immagine, spesso diffusa, di Aldo Moro quale “mediatore” nella politica del suo tempo, un abile, e un po’ bizantino compositore di equilibri tra forze diverse. Se di mediazione si trattava era sempre mediazione alta,  sintesi democratica. Moro era convinto che quanto più impegnative si presentavano le scelte politiche, tanto più dovevano essere sostenute da un forte nutrimento culturale e che la politica senza cultura finisce per rinsecchire nella mediocrità tattica e utilitaristica. Aldo Moro fu per il cattolicesimo democratico oltre che un animatore, un vero “resistente”. Nella primavera del 1960, in una situazione resa oggettivamente ambigua dal Governo Tambroni, Moro mantenne ferma la prospettiva di centro-sinistra anche di fronte a diffuse preoccupazioni interne alla DC, ma soprattutto davanti a pesanti pressioni esterne. E così, pochi giorni prima del Consiglio Nazionale della DC, l’ “Osservatore Romano” aveva pubblicato un articolo di fondo non firmato intitolato “Punti fermi”, nel quale si dichiarava per i cattolici l’impossibilità di principio di collaborare con i socialisti e li si richiamava alla disciplina nei confronti della Gerarchia ecclesiastica anche nelle scelte politiche, invitandoli a non seguire “le fragili opinioni di maestri improvvisati”. Il quotidiano della Santa Sede annullava così ogni distinzione tra le ideologie e le loro traduzioni sul terreno storico; cancellava l’autonoma responsabilità del laicato cattolico nella sfera politica, secondo la nota distinzione di Maritain (agire “in quanto cristiani” o “da cristiani”); cercava di spingere la politica democratico-cristiana a ritroso, verso il clericalismo. Non credo sia fuori luogo ricordare che di lì a poco i documenti conciliari fecero propria la maritainiana distinzione dei piani tra sfera religiosa e politica, illustrata poi con grande rigore intellettuale da Giuseppe Lazzati. Dopo la crisi del centro-sinistra che condusse all’esito elettorale polarizzato del 1976, occorreva dar vita ad un patto di reciproca lealtà democratica e costituzionale. Vorrei sottolineare, a questo  proposito, che il tipo di forze in campo ed il rispetto reciproco- che pur nello scontro non mancava mai - non ci consentono forzati parallelismi con le dinamiche attuali. Prima di altri, meglio di altri, Moro ebbe ben chiara la percezione di quanto il sistema democratico  fosse destinato a durare solo a patto di creare progressivamente le condizioni per includere tutte le forze politiche che avevano partecipato alla Costituzione nell'area di governo, scardinando il blocco patologico del sistema politico ed insieme l'impossibilità di sbloccarlo date le condizioni interne ed internazionali. La democrazia compiuta aveva per Moro questo precipuo significato: che la gestione del potere riflettesse, non solo una sufficiente base parlamentare, ma anche una significativa base sociale nel Paese. Di questa esigenza si era reso conto, dal suo versante, Enrico Berlinguer, che aveva accelerato lo strappo da Mosca ed aveva indicato in economia un contesto di austerità che rendesse accettabile la politica dei redditi e quindi il sostanziale superamento del classismo. Era questo l’avvio dell’Italia verso una democrazia compiuta, attraverso il coinvolgimento di due grandi forze ideali, dotate di profonde radici popolari, l’una e l’altra approdate da versanti lontani, ed in tempi storici diversi, alla piena accettazione della democrazia liberale. La prospettiva di una democrazia fondata sulle basi comuni di un nuovo umanesimo, sul rilancio dei principi contenuti nella prima parte della Costituzione, era prospettiva culturalmente assai nobile ed alta, l’esatto contrario dei mediocri luoghi comuni “sul “consociativismo”, sul catto-comunismo, coniati dalle pigri, miopi e superficiali analisi di conservatori e clericali. Ed era l’unica risposta possibile a quella crisi dell’ordine democratico che egli definiva “latente, con alcune punte acute”. Moro era preoccupato per quella forma di anarchismo che il 68 aveva lasciato in tante coscienze, specialmente nelle forze giovanili del paese, per “il serpeggiante rifiuto dell’autorità, rifiuto del vincolo, questa deformazione della libertà che non fa più accettare né vincoli né solidarietà”. E’ tempo per Moro, dunque, dopo la grande stagione dei diritti, di un ritorno alla stagione dei doveri. Si è voluta fermare sanguinosamente una politica che, se si fosse liberamente dispiegata, avrebbe ridotto i margini sia ai disegni rivoluzionari che alle scorciatoie autoritarie che, diremmo oggi, alle derive populiste. Un’operazione di così ampio respiro era il contrario di un arroccato presidio del potere. Moro aveva ammonito, talvolta con parole severe e profetiche, che il solo rifugio nel potere – sia pure in un potere conquistato ed esercitato legittimamente – non garantiva un lungo futuro. Che cosa è accaduto dopo e perché si è giunti alla crisi dei partiti storici? E’ accaduto che da quella ipotesi di aperta evoluzione delle forze ideali in campo, la politica ha ripiegato nel recinto del potere, magari spartito a mezzadria. E, poi, è scivolata a rimorchio di un pragmatismo, piuttosto cinico, che perseguiva la costruzione di un nucleo garantito nel possesso delle leve di governo, attraverso la commistione tra politica e poteri economici e finanziari. Fu l’avvento dell’affar-politica, come diceva profeticamente Achille Ardigò. L’affar-politica, una stagione di attualità, la conseguenza della dissipazione dei valori. Così la cultura politica italiana è precipitata dalla rigidità delle ideologie totalizzanti alla volubilità del pragmatismo e dell’utilitarismo, saltando il piano proprio di una politica fondata sui valori condivisi e proclamati nella prima parte della Costituzione: la centralità della persona, la libertà formale e sostanziale, la pari dignità sociale di tutti, la rimozione degli ostacoli per il pieno sviluppo dei cittadini, il diritto al lavoro, il rispetto del pluralismo, dei nuclei intermedi della società a partire dalla famiglia fino alle autonomie territoriali e sociali, l’apertura della scuola, la libertà dell’intrapresa privata bilanciata dalla socialità dei suoi fini, la divisione dei poteri nello Stato, il ripudio della guerra. Questo è il piano saltato a piedi pari nella caduta dalle ideologie al pragmatismo. Questo è il piano al quale occorre risalire. Non tutto è così sconfortante come appare dalle cronache. Moro diceva che il bene non fa notizia ma c’è. Basta pensare alle generose testimonianze collettive del volontariato, qualunque siano le motivazioni e le sensibilità che lo motivano e lo sostengono. Se un patrimonio è stato dissipato esso non è stato distrutto. E’ possibile ritrovarlo, ricomporlo, farlo riemergere. Non è facile. Occorre una battaglia ideale, non un pronostico sui tempi di conquista del potere. Condizione essenziale è di non tradire le motivazioni etiche che stanno alla base dell’impegno politico, riscoprire la solidarietà civile, il senso dell’appartenenza ad una collettività.


                                                                                                             Marcello Delfino

Nessun commento:

Posta un commento