Emanuele Macaluso, nel suo libro
dedicato a Togliatti “Comunisti e riformisti”, ricorda giustamente i meriti del
“comunismo riformista”, che ha svolto una grande opera nel consolidamento
democratico dell’Italia. Altrettanto giustamente Macaluso spiega la crisi del
Pci con la sua incapacità di tirare tutte le conseguenze della scelta
riformista e della “democrazia come valore universale”, rompendo radicalmente
con l’Urss e collocando il partito nell’alveo del socialismo europeo. L’intima
debolezza del “comunismo riformista” risiedeva infatti nel prevedere un
percorso democratico in Italia e nel legittimare nel contempo il regime
autoritario sovietico come frutto di una rivoluzione che aveva abolito la
divisione di classe.
La questione cardine, purtroppo lasciata senza risposta,
la pose Giorgio Amendola in un articolo dell’ottobre 1964 dal titolo
emblematico “E’ arrivato il momento di rimescolare le carte”: la questione del
“partito unico della sinistra”, nel quale “trovino posto i comunisti, i
socialisti, e uomini come Bobbio che rappresentano degnamente la continuazione
della battaglia liberale iniziata da Piero Gobetti”. La mancata risposta a
questa questione, scrive Macaluso, provocò “la crisi che alla fine del secolo
scorso travolse l’intera sinistra italiana”, che è all’origine del fatto “che
il nostro è il solo Paese europeo dove non esiste più un grande partito
socialista”.
L’inseguimento di un “oltre”
abbagliato dalle generiche sirene della completa discontinuità rispetto alla
tradizione della sinistra ha portato a un ventennio di subalternità alle
ideologie dominanti, senza una visione del futuro alternativa a quella delle
forze neoliberiste. Una subalternità che si è protratta lungo il ventennio
della straziante metamorfosi Pci-Pds-Ds-Pd, e che ha comportato la pesantissima
sconfitta della componente ex Pci-Pds-Ds nelle primarie dell’8 dicembre. Renzi
ha vinto non solo perché è un bravo comunicatore e perché è un critico
impaziente di un Governo non amato come quello di Letta, ma anche e soprattutto
perché il popolo del Pd pensa che il gruppo dirigente storico del partito debba
essere “mandato a casa” (la “ribellione” di cui ha scritto nel blog Sandro
Bertagna) e che “non c’è niente altro”: c’è solo Renzi, l’unico capace di
sottrarre il centrosinistra a un destino
di accerchiamento e di sconfitta. La mancanza di alternative è un grande
elemento di forza del Sindaco di Firenze: lo ha spiegato bene Mari Grossi nel
suo commento, sul blog, al mio “Renzi, Burlando e il dibattito che non c’è”.
Credo che una sconfitta di questa
portata debba comportare una discussione che vada oltre la questione posta da
Macaluso -la mancata collocazione del Pci nel socialismo europeo- e che
affronti anche il tema delle insufficienze e delle incoerenze della attitudine
riformista del Pci. Il che serve anche a spiegare perché il Pci e i suoi eredi
non siano mai diventati socialisti. Il punto di fondo mi sembra questo: dal
punto di vista delle visioni di politica economica e sociale, il Pci è stato
molto influenzato dal liberalismo di Croce e Einaudi, intrecciato con i residui
terzinternazionalisti “crollisti”. Un mix poco adatto a cogliere il dinamismo e
le trasformazioni economiche e sociali. Tant’è che il riformismo più
innovativo, in Italia, è stato quello della programmazione, del nuovo modello
di sviluppo e del keynesismo, introdotto dal Partito d’Azione, dai socialisti
eterodossi e dalla sinistra democristiana più che dai comunisti. O quello
dell’autorganizzazione operaia e della politica come “aiuto alla gente a
governarsi da sé”, essenziale in uomini come Vittorio Foa e Bruno Trentin,
quest’ultimo comunista sì, ma di formazione azionista. Così si spiega perché
l’ondata neoliberista che arrivò anche in Italia dalla metà degli anni ’80 non trovò nemmeno nel Pci molti argini lungo
il proprio cammino. Si crearono cioè le condizioni per il vero, grande
cedimento dell’ultimo ventennio, che vide protagonisti gli uomini della
“svolta”. Ecco perché c’è da temere per le parole di Claudio Burlando, che
paragona l’avvento di Renzi con la “svolta” dell’89: una seconda “svolta”
potrebbe essere un secondo grande cedimento, visto che per ora Renzi sembra
essere del tutto dentro il perimetro politico e culturale della discontinuità
“oltrista” e della subalternità al neoliberismo.
Ritornando ai limiti del
“riformismo comunista”, essi si manifestarono a pieno, a metà degli anni ’70,
con il governo di “solidarietà nazionale”, un monocolore Dc appoggiato
dall’esterno dal Pci e dagli altri partiti di centrosinistra. La politica di
“austerità” che fu praticata non realizzava certo il cambiamento del modello di
sviluppo: fu una semplice, pesante politica di austerità senza riforme che
consentì per un breve periodo di bloccare la crescita del debito pubblico
rispetto al Pil. Obbiettivo importante, sia chiaro: ma assai debolmente
riformista. Al fondo c’era una visione politica in base a cui il Paese non
poteva essere governato con il 51% dei voti. Oggi qualcuno lo tradurrebbe
dicendo che il Paese si può governare solo dal centro. Un discorso ancora
attuale, se si pensa che, dopo le vittorie nei referendum sui beni comuni e nelle
amministrative del 2011, il Pd, invece che cimentarsi con la sfida del governo,
scelse l’appoggio al Governo Monti, gettando così le basi per la sconfitta
della coalizione di centrosinistra nelle elezioni politiche del 2013. I limiti
del “riformismo comunista” furono anche i limiti della componente “riformista”
nata con lo scioglimento del Pci e la nascita del Pds, guidata da Napolitano e
Macaluso: io vi aderii, ma nel nome del socialismo di sinistra e di un
riformismo che a mio parere avrebbe dovuto essere più radicale di quello del
Pci. Insomma: Giolitti, Ruffolo, Lombardi, Mitterrand, Lula, non il blairismo e
la “terza via”. Ma era, la mia, una posizione di minoranza dentro una minoranza…
Il riformismo avrebbe dovuto incontrare i giovani di Seattle e del Forum
Sociale Mondiale di Porto Alegre, e diventare una alternativa al neoliberismo e
non un suo imbellettamento, come invece avvenne.
La riflessione sul fallimento
storico della classe dirigente Pci-Pds-Ds-Pd è utile anche perché ci fornisce
una lezione per il futuro: regolazione del capitalismo finanziario,
programmazione economica, nuovo modello di sviluppo, keynesismo, mutualismo,
autorganizzazione, autogoverno sono ancora la rotta di una sinistra nuova,
radicale e di governo. Una rotta da portare nei tempi nuovi: un nuovo progetto
politico per una nuova stagione, che si basi su queste idee forza della
sinistra e le rinnovi profondamente. Il socialismo o laburismo dei tempi nuovi,
per esempio, non può non guardare al superamento della demarcazione netta tra
lavoro dipendente e lavoro autonomo, e a una sintesi tra i bisogni delle figure
più “protette” e “incluse” e quelli delle figure sociali più marginali, i
giovani e i precari in primo luogo (il modo nuovo con cui pensare l’eguaglianza
di cui parla Franco Cassano). Così come, altro esempio, il socialismo o
laburismo dei tempi nuovi non può non essere ecologista, non fare cioè i conti
con i limiti dello sviluppo.
Renzi sarà in grado di portare il
Pd su questa strada? Certo, è importante che proponga l’adesione del Pd al
Partito socialista europeo. E che lanci segnali di ripensamento rispetto al suo
originario impianto sostanzialmente neoliberista: dopo l’innamoramento per
Marchionne, ora sembra fare la “corte” a Landini. Ma siamo solo ai “titoli”.
Resta, come scrive Luca sul blog, un “profilo ideologico liberale e leggero”.
Tuttavia la vittoria di Renzi ci porta in un nuovo terreno di gioco, e il
confronto deve aprirsi davvero e farsi nitido: sul metodo di gestione del
potere (come scrive giustamente Luca) e sui contenuti, sulla ricerca per un
socialismo o laburismo dei tempi nuovi. Personalmente non ho accordato fiducia
al Pd neoliberista di Veltroni, ma dopo ho dato credito ai propositi prima di
Franceschini, poi di Bersani. E a quelli di Zapatero, Obama, Hollande… In fondo
quello che mi ha deluso di meno e che ha fatto più “cose di sinistra” è il
Presidente americano, almeno nella politica economica e sociale. Per il resto… Anche
i partiti socialisti europei non sono stati capaci di realizzare gli ideali a cui dicono di
ispirarsi. Che fare, allora? Io penso, nonostante veda bene come anche l’impianto
di Renzi sia subalterno al neoliberismo, che si debba guardare a lui con una
-relativa e condizionata- apertura di credito. Perché, come dice Landini, “è
più libero dei suoi predecessori”. E perché è impossibile, come ho cercato di
spiegare altrove (“Renzi, non dimenticare le diseguaglianze”, “Città della
Spezia” del 22 settembre 2013), riproporre il blairismo vent’anni dopo, in un
Paese disperato e con un ciclo economico non espansivo come quello degli anni
’90. Almeno, dunque, “sospendiamo il giudizio”. E sfidiamo Renzi a “cambiare
verso” nella direzione giusta. Sapendo che, per la radicalità della crisi del
Paese, c’è ormai pochissimo tempo.
Il mio “campo”, tuttavia, non è
il Pd, ma la sinistra fuori dal Pd. Ci sto criticamente, anche per il metodo di
gestione del (piccolo) potere esistente in questo “campo”, ma qui sto. Il
“rimescolamento delle carte”, per dirla con l’Amendola del 1964, tra Pd, Sel,
sinistra della società civile, è sempre stato il mio obbiettivo/sogno, ma oggi
non è all’ordine del giorno. Credo che in questa fase la piccola Sel, a cui
aderisco, debba rafforzarsi come soggetto autonomo. Poi, certamente, deve interloquire
con il Pd e verificare la possibilità di un’alleanza basata su un’agenda del
cambiamento. Ma innanzitutto Sel deve dire che cosa vuole e propone per il
Paese e le sue fasce più deboli. Il nuovo centrosinistra ci sarà, se ci sarà,
solo dopo il Governo Letta. E dipenderà dalle scelte del Pd ma anche da quelle
di Sel, dalla sua autonomia culturale e politica, dalla sua forza, dalla sua
capacità di “influenzare” il Pd. Sel deve, dunque, mettersi a disposizione di
una sinistra nuova, aprirsi a chi non si riconosce più nel Pd, nel minoritarismo
identitario dell’altra sinistra, nello sfascismo del M5S, e a chi opera nei
pezzi vivi della società italiana, da “La via maestra” alla Fiom, da Libera a
Emergency. E’ un mondo che non è stato cancellato e che mi auguro si faccia
sentire con l’azione culturale e politica. In fretta, perché c’è ormai
pochissimo tempo per tutti.
Giorgio Pagano
Nessun commento:
Posta un commento