Il tema del lavoro è centrale per
la politica e per la sinistra. Ed è connesso al tema delle diseguaglianze
sociali. Alla radice della crisi ci sono infatti le diseguaglianze sociali e
ciò che esse hanno comportato: un arretramento grave nelle condizioni di lavoro,
nel livello di salari, stipendi e pensioni, nel ruolo che il lavoro ha nella
società. Il lavoro è stato frantumato e diviso, e ha pagato il prezzo
principale della crisi. 10 punti di Pil sono passati dalle retribuzioni e dalle
pensioni alle rendite a ai profitti: un’enormità.
Questa diseguaglianza sociale
esplosiva è la misura della perdita del potere del lavoro e della sua
conseguente privatizzazione/mercificazione. Una riduzione dei diritti che
ferisce non solo dal punto di vista economico: limita la dignità, spezza l’identità
della persona. Limita la libertà, la partecipazione, la democrazia. Rompe così il
nucleo di valori della nostra Costituzione.
Viene in mente il personalismo
cattolico, che lasciò una forte traccia sulla Costituzione. La parola “dignità”
in parte viene da lì. L’ha usata Papa Francesco in Brasile parlando ai giovani:
“Abbiamo una generazione che non ha esperienza della dignità guadagnata con il lavoro”.
Ma viene in mente anche Bruno Trentin, che partiva dagli operai piuttosto che
dalla “classe” e pensava che la fabbrica fosse il primo terreno di libertà
della persona, non riducibile a homo oeconomicus. Lezioni diverse, ma entrambe
basate su scenari valoriali che combattono l’ideale individualista di una “vita
facile” e disimpegnata, egemone dagli anni ’80 del secolo scorso.
Vorrei affrontare cinque nuclei
di questioni, che a mio parere dovrebbero essere centrali negli imminenti
congressi di Pd e Sel.
1)
Così come nei meccanismi elettorali i cittadini sono
stati privati del diritto di scegliere chi eleggere, allo stesso modo un
lavoratore non ha avuto negli ultimi anni il diritto di decidere, con il
proprio voto su opzioni diverse, di accordi sindacali che decidono sul suo
reddito, la sua condizione di lavoro, i suoi diritti nel luogo di lavoro. Dal
2009 ad oggi non si è mai votato in fabbrica, a parte Pomigliano e Mirafiori
sotto il giogo del ricatto; e il contratto dei metalmeccanici è stato firmato non
solo senza il consenso della Fiom ma anche senza referendum. Su questo punto la
mobilitazione della Fiom e della Cgil ha portato a un primo importante
risultato: il recente accordo tra le parti sociali in materia di rappresentanza
sindacale. L’accordo non si limita a misurare il peso delle singole
organizzazioni sindacali, basato sulle percentuali dei voti e delle deleghe che
esse sono state in grado di aggregare. Esso dice anche che su questa base è
possibile assicurare validità ai contratti, se le intese impostate dai
sindacati sono supportate dal consenso della maggioranza dei lavoratori
interessati. E’ un aspetto di democrazia partecipativa importante e innovativo,
perché fa leva sul coinvolgimento di tutti i diretti interessati, iscritti e
non iscritti. Certo, ora l’accordo va attuato. Occorre l’intesa anche tra le
categorie dei sindacati, e tra i metalmeccanici permangono le divisioni. La
questione Fiat non è ancora risolta, nonostante la sentenza della Corte
Costituzionale: un’altra enormità. Ecco perché, dopo questo primo passo in
avanti, serve una legge che garantisca
la piena libertà sindacale in ogni posto di lavoro. Perché la democrazia non si
fermi ai cancelli delle fabbriche. Perché si affermi il legame tra lavoro e
dignità, che è il legame con la libertà: libertà di scelta della rappresentanza
innanzitutto.
2)
La piena libertà di esercizio del conflitto sociale è
l’essenza stessa del carattere democratico della società. Solo attraverso un
pieno dispiegamento del conflitto si controbilanciano i potentati economici e
si controlla l’esercizio del potere. Non c’è, in una società democratica, un
interesse di parte, quello delle imprese, superiore ad ogni altro interesse.
Non c’è una presunta superiore razionalità di scelte tecniche ed economiche. E’,
questo, un punto essenziale di battaglia politica e culturale contro il
“pensiero unico” e il rischio di derive autoritarie. Il tema del conflitto è di
grande attualità anche se si guarda alla politica, dove domina l’ideologia
della “necessità”. Ma se tutte le scelte sono ispirate al principio di
“necessità”, che fine fa la politica? Si riduce a pura tecnica. La democrazia
si nutre del conflitto politico, che è il lievito essenziale del progresso
della società. E il conflitto è il contrario della “necessità”.
3)
Il conflitto, sociale e politico, è necessario per
combattere la continua riduzione del lavoro, in tutte le sue forme, a una
condizione che ne nega la possibilità di espressione e di realizzazione di sé:
il riferimento è alla precarizzazione, all’individualizzzazione del rapporto di
lavoro, alla durezza del ricatto sul lavoro, da Pomigliano in poi. Il ricatto
della riforma dell’articolo 18, danno non soltanto simbolico ma materiale, morale,
politico, con le sue prime vittime in carne e ossa. Il ricatto dell’articolo 8
del decreto Berlusconi, ancora più grave: la contrattazione aziendale può
derogare ai contratti nazionali, ma anche a gran parte della legislazione
applicabile al rapporto di lavoro. L’accordo sulla produttività non firmato
dalla Cgil va in questa direzione: la scomparsa del contratto nazionale.
Gustavo Zagrebelsky ha parlato di “vera e propria corporativizzazione delle
relazioni sindacali, azienda per azienda, in nome della produzione”. Si punta a
mettere da parte la contrattazione nazionale, dove trovano risposte generali i
problemi del lavoro nella dimensione che è sempre stata una garanzia
soprattutto per i lavoratori di piccole e medie aziende in cui la rappresentanza
sindacale è debole.
4)
Il quarto punto riguarda la politica, perché qui siamo
al cuore del problema della politica: se si accetta come normale lo scambio di
diritti contro lavoro alla fine viene meno la distinzione stessa tra politica
ed economia. Viene meno la sovranità della politica. La libertà economica non
ha un valore superiore alla libertà del lavoro: o la politica capisce questo o
perderà la sua dignità. Dignità del lavoro e dignità della politica si
accompagnano: non c’è l’una senza l’altra. O meglio: dignità della sinistra. La
crisi della politica si supera se si supera la crisi della sinistra: cioè la
sua subalternità al neoliberismo, e quindi la sua carenza di radici sociali nel
lavoro. La questione di fondo è la ricostruzione di una sinistra non più
subalterna al neoliberismo, e quindi una sinistra riconnessa alle sue radici
sociali. Altrimenti la sinistra è solo ceto politico. Chi rappresenta il
lavoro? Ecco il cuore del problema della politica, cioè del problema della
sinistra. La sinistra non può più sfuggire al problema. Nel momento in cui
grandi masse pensano che sia giunto il tempo di liquidare la democrazia dei
partiti la sinistra non può ridurre il suo dibattito nei confini della
“governabilità”, ma deve ritrovare le vie della rappresentanza dei processi
sociali e intellettuali più profondi. Come fecero i nostri padri: quando per
uscire dalla subalternità ai poteri e alle idee allora dominanti dettero agli
sfruttati non solo solidarietà ma una soggettività politica. Di questo c’è
bisogno ancora oggi: di ciò che Alfredo Reichlin definisce “una comunità umana
che possa essere abitata anche dalle classi subalterne… un luogo dove si
elabora una visione per il futuro, un progetto”. Non c’è bisogno, invece, di
rafforzare la “governabilità” dando più potere all’uomo solo che comanda.
L’Italia è mal governata non perché non c’è il presidenzialismo ma perché i
partiti sono sempre meno capaci di “rappresentare”. Le diseguaglianze sociali,
le esclusioni, la precarietà, la riduzione in povertà del lavoro, colpiscono ai
fianchi il sistema politico e lo rendono assai fragile. Ma sul loro cammino i
lavoratori non trovano più la vecchia talpa che dà un senso alla lotta per i
diritti e organizza l’autonomia politica dei ceti subalterni. E per questo
proprio gli operai e i ceti popolari votano le destre populiste. Il nodo
irrisolto, in tutta Europa, è la ricostruzione di un nesso tra sinistra e
società, tra politica e conflitto. Serve, a una sinistra che ha smesso di
studiare, una diagnosi approfondita della postmoderna questione sociale.
5)
Non c’è dubbio, il proletariato industriale -precarizzato,
colpito dall’insicurezza che investe gli strati subalterni, ricattato, ridotto
di numero- ha perso il ruolo politico di catalizzatore. E soprattutto ha perso
identità culturale e politica. Eppure le diseguaglianze sono cresciute. Perché
non sono diventate un catalizzatore? Per la mancanza di una identificazione tra
loro delle varie figure che compongono la parte che sta in basso della piramide
sociale: una identificazione che è sempre, come spiega Salvatore Biasco in
“Ripensando il capitalismo”, “una costruzione culturale e politica, non una
confluenza spontanea”. Ora al centro c’è la questione del “chi paga” il rientro
dalla crisi: è l’occasione, per una sinistra non più subalterna al neoliberismo,
di costruire sulle basi dell’equità e dell’eguaglianza un’alleanza di ceti
subalterni finora divisi e frammentati. Tetto ai redditi milionari dei top manager, protezione
dai rischi sociali, fermezza sui diritti sociali per ridare forza contrattuale
al lavoro, forte investimento su formazione e welfare, reddito minimo,
occupazione giovanile… Sono i punti su
cui tentare di riformare una coscienza collettiva in comparti lavorativi e
spaccati sociali molto disomogenei tra loro, di ricostruire blocchi che lottano
per la giustizia sociale e per riformare il capitalismo.
In ultimo, una considerazione sul
rapporto tra Sel e Pd: il tema della valorizzazione del lavoro e del
collegamento sociale con il mondo del lavoro è decisivo per l’evoluzione del
rapporto. Dal congresso del Pd dovrà emergere se il Pd è “normalizzato” o no.
Cioè se è un partito moderato, subalterno alle classi dominanti e alle loro
ideologie, che pensa che l’Italia possa essere governata solo “dal centro”,
magari con “larghe intese” che diventano “lunghe intese”, rese durature da
un’evoluzione del centrodestra senza Berlusconi. Oppure se punta a un nuovo
centrosinistra, con un nuovo programma di cambiamento che abbia al centro il
lavoro. Sel lavora per questo obbiettivo. E deve tenere conto che nel Pd lo
scontro tra le due linee ha come cartina di tornasole proprio il rapporto con
Sel: chi vuole le “lunghe intese” è per la rottura con Sel, al contrario di chi
vuole un nuovo centrosinistra. Ciò significa che il Pd non è il “destino
necessario” di Sel. L’alleanza con il Pd sarà la scelta di Sel nella misura in
cui sarà politicamente funzionale alla prospettiva del cambiamento. E quindi si
farà solo se il Pd saprà “svoltare”.
Giorgio Pagano
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