sabato 25 maggio 2013

La sinistra e la tentazione di compiacere la tecnocrazia liberal
di Jonathan Marsella


Austerità, rigorismo nei conti, flessibilità del lavoro. Questi sono stati e in parte sono ancora – nonostante il ripensamento di molti, Francia in testa - gli ingredienti fondamentali per essere considerati un “paese per bene” dalla comunità internazionale e dagli osservatori finanziari, con la complicità di mezzi di informazione che promuovono all’unanimità un dibattito politico ed economico tutto incentrato sulla discontinuità con le vecchie politiche di sperpero e di debito e con il costoso modello di welfare state alla europea per come lo abbiamo conosciuto. Questo sistema di analisi e di commento rilascia vere e proprie patenti di modernità ai governi e ai partiti che sanno radicalmente convertirsi a questi principi e a queste dottrine marginalizzando, soprattutto in Italia, le voci di dissenso che invece sono assai protagoniste nel dibattito pubblico di altre democrazie occidentali, USA in primis.
Tali punti di vista vengono quasi unanimemente bollati come stantie riproposizioni dello statalismo conservatore e assistenzialista della sinistra tradizionale europea e vengono persino accusati di voler perpetuare i vizi di spesa pazza che hanno condotto alla terribile crisi monetaria, economica e addirittura identitaria che l’Unione Europea vive ormai da anni, come se fossero prodotto di eccessiva solidarietà sociale e non, semmai, dell’egoismo intraeuropeo promosso per anni dalle destre continentali.
 Intorno a questi giudizi, a queste presunte colpe, sembra oggi avvitarsi la discussione di gran parte della sinistra italiana e della sua intellighenzia, a partire dal suo principale soggetto politico, il PD, dove si riaffacciano rinvigorite tesi di conversione di una colpevole identità socialdemocratica, a dire il vero mai realmente abbracciata e costruita, alle tesi liberal più radicali imposte dai governi conservatori e dalle tecnocrazie internazionali ai paesi del Mediterraneo con le situazioni più esposte di debito pubblico. In questo c’è un grande equivoco, ovvero il riconoscimento di una sorta di terzietà tecnica e analitica, di assenza di colore politico delle istituzioni europee, che le autorizzerebbe a dare giudizi e patenti insindacabili. Ovviamente si tratta di un senso comune appositamente alimentato ed errato, al quale la sinistra europea non ha saputo reagire a sufficienza evidenziando come i governi dei paesi membri, il Parlamento europeo e la Commissione europea abbiano avuto in realtà in questi anni una omogenea e prevalente maggioranza conservatrice e liberal, Germania in testa. Appare dunque curioso che gli stessi attuatori delle politiche economico-finanziarie che hanno fortemente provocato e sicuramente prolungato la crisi oggi vengano riconosciuti, anche dentro la sinistra, come gli interlocutori autorizzati a dettare la ricetta della guarigione, i medici a cui dare ascolto per sistemare i nostri problemi interni e quelli comunitari. Noi paesi spendaccioni dobbiamo redimerci dalle allegrie del passato attraverso una sofferenza di spesa e di investimento. Il problema, però, è che questa sofferenza è diventata mano a mano sempre più sofferenza sociale. Sia ben chiaro, una correzione rispetto alle politiche di indebitamento costante che rendessero più solidi i nostri conti si ponevano come necessarie per rendere sostenibili i bilanci dello Stato e non mettere davvero definitivamente in discussione la pubblicità universale di scuola, sanità ecc (e in questo la sinistra italiana è arrivata ben prima della destra, basti pensare alle tanto vituperate politiche di oculatezza di bilancio attuate dai governi Prodi) e magari si porrà il tema, che non deve essere un tabù, se certi servizi e certe prestazioni dovranno mantenere in futuro una gratuità pressoché totale a prescindere dal livello di reddito, ma la distinzione tra chi, da una parte, vuole la conservazione dei disequilibri sociali esistenti - che mai si conservano, ma si aggravano - nel nome dell’autoregolamentazione del mercato e chi, dall’altra, vuole che dalla crisi si esca con una redistribuzione della ricchezza e delle opportunità consiste nel dove si taglia e dove si reperiscono le risorse necessarie per ricominciare a crescere. Perdonando una semplificazione: i primi puntano sull’austerità della spesa e la contrazione dello stato sociale con uno Stato il meno possibile protagonista del rilancio economico e del condizionamento di mercato e produzione, e una flessibilizzazione crescente del mercato del lavoro; i secondi sul rilancio della crescita anche attraverso pianificazione e investimenti pubblici, sia nella produzione che nella limitazione del disagio sociale, e una riforma dei regimi fiscali più progressiva in base ai redditi con meccanismi di garanzia che i percorsi lavorativi non siano sottoposti a un’incertezza cronica che compromette l’idea stessa di “futuro” individuale e collettivo. Può apparire una distinzione manualistica tra liberisti e socialisti, tra politiche economiche di destra e di sinistra. Oggi però non è più una distinzione scontata ed è un grande guaio per la sinistra che, affetta da complessi minoritari storici e sensi di colpa indotti e auto inflitti, si converte ciclicamente al compiacimento del presunto ammodernamento in salsa liberal. Precisiamo, una certa incapacità dei progressisti di guardare oltre i propri blocchi sociali di riferimento, quelli più sindacalizzati e in un certo senso più garantiti, come pensionati e pubblico impiego esiste tutta; così come va affrontata la difficoltà di rappresentanza di un mondo del lavoro e di un contesto sociale meno diviso in categorie, più individualizzato e fluido da parte sia dei partiti di sinistra che, ancora di più, dei sindacati, pena ridurre ulteriormente la loro capacità di rappresentare la maggioranza della società, di difendere la concertazione utile e ben fatta, di promuovere vera mobilità sociale. E’giusto però che questo sacrosanto processo di autoriforma e di ammodernamento passi per un bagno purificatore nelle politiche tradizionali della destra occidentale? E’giusto sentire il bisogno di compiacere i succitati osservatori con un “avevano ragione loro”? Certamente no e questo non è un giudizio arbitrario, ma la misurazione dei risultati di anni di politiche incontrastate di austerità e rigorismo. Lo fa, con grande precisione ed efficacia, l’economista Paul Krugman che certo non è un eurocomunista, ma uno dei consiglieri economici dell’amministrazione Obama. Krugman, in un intervento di questi giorni, punta il dito contro gli studi pro-austerity degli americani Reinhart e Rogoff e dei bocconiani Alesina e Ardagna secondo i quali la riduzione della spesa pubblica avrebbe portato con sé un automatico aumento del PIL con conseguente aumento di fiducia dei mercati e dei consumi. Eppure se si analizzano gli ultimi tre anni balza agli occhi una realtà opposta: i paesi sottoposti a maggiore austerità, Grecia in primis, sono quelli dove è più marcato il peggioramento degli indicatori economici con grande contrazione di PIL e consumi e un’altrettanto intensa crescita della disoccupazione, soprattutto giovanile.
A chi conviene dunque continuare in questo depauperamento che a lungo è stato erroneamente presentato come un nuovo patto sociale fondato sui sacrifici oggi e la crescita a breve? Sicuramente ai super-ricchi che esercitano una tale influenza sui mercati finanziari da mutarla in influenza sui governi, quella che Ajay Kapur teorizzava come l’avvento della “plutonomia”, un’economia esclusivamente condizionata dall’autoconservazione elitaria dei ricchissimi e dei colossi finanziari.
E’in questo contesto che la sinistra italiana deve scegliere da che parte stare nella società e in Europa, preoccupandosi meno degli editorialisti in posa, sia nella sua eccezionale esperienza di governo di larghe intese che nelle prossime riflessioni congressuali. Soltanto così avrà di nuovo un ruolo di riscatto sociale e culturale e aiuterà l’Europa a non implodere e a tornare ad essere quello che è stata e solo in piccola parte è ancora nelle speranze delle giovani generazioni: non il burocratico controllore e arbitro di noi tutti, ma un coraggioso e affascinante orizzonte di crescita e contaminazione,  un’opportunità di competere da protagonisti nel ridefinito scenario internazionale fatto di nuovi colossi emergenti senza sacrificare i diritti fondamentali e l’articolo 1 della Costituzione Italiana.


                                                                                                        Jonathan Marsella

1 commento:

  1. Mi pare un articolo di ampio respiro e lo condivido.Estrapolo dall'articolo un pezzo perchè mi pare utile a comprendere cosa è avvenuto "Precisiamo, una certa incapacità dei progressisti di guardare oltre i propri blocchi sociali di riferimento, quelli più sindacalizzati e in un certo senso più garantiti, come pensionati e pubblico impiego esiste tutta; così come va affrontata la difficoltà di rappresentanza di un mondo del lavoro e di un contesto sociale meno diviso in categorie, più individualizzato e fluido da parte sia dei partiti di sinistra che, ancora di più, dei sindacati, pena ridurre ulteriormente la loro capacità di rappresentare la maggioranza della società, di difendere la concertazione utile e ben fatta, di promuovere vera mobilità sociale". Credo che questo sia un punto molto importante da non sottovalutare perchè è stata una delle strade maestre attraverso le quali è potuta transitare tutta la ideologia liberista- lo Stato spreca e ruba, il privato è buono,efficiente in grado di competere ed in fondo anche caritatevole alla bisogna- Per ragioni di spazio e sintesi prelevo un pezzetto del Manifesto di Fabrizio Barca che a me pare possa integrare il mio pensiero a proposito del perchè il liberismo ha avuto giuoco facile:"Il susseguirsi ininterrotto, talora frenetico, negli ultimi venticinque anni, con governi assai diversi, di riforme dei mercati (del lavoro, dei capitali e dei servizi) e della Pubblica Amm., in larga misura inefficaci, sia inte rmini di produttività e inclusione sociale, sia in termini di spirito del paese,stante l’assenza di una visione condivisa sul fine e sulla natura di queste riforme, la sistematica disattenzione alle soluzioni già di fatto praticate nei territori del paese, la tendenza a mettere assieme mattoni istituzionali copiati da diversi altri modelli nazionali.
    Il susseguirsi di comportamenti abusivi del ruolo pubblico, di gravità,
    diffusione, arroganza e senso di impunità assolutamente non comparabili con le vicende passate del paese o con altri paesi.
    Una macchina dello Stato arcaica e autoreferenziale, caratterizzata da “primitivismo organizzativo, rudimentalità delle procedure, insufficienze del personale, scarso ricorso a tecnologie informatiche, arcaicità del disegno complessivo, suo anacronismo rispetto agli altri governi moderni”. La macchina dello Stato, la Pubblica Amministrazione, è in generale attardata nel modello
    autoritario di governo della cosa pubblica; pretende, con arroganza cognitiva, di predefinire in modo completo le regole del gioco; è affetta da smania normativa; trascura sistematicamente l’attuazione, mancando di “ingegnerizzare” i processi realizzativi; pretende dai cittadini il rispetto delle scadenze mentre non le rispetta essa stessa; ignora la valutazione degli esiti; non facilita o rifiuta, a livello nazionale, il confronto aperto con le soluzioni alternative che vengono dalle esperienze territoriali. La macchina dello Stato è dunque complessivamente estranea agli strumenti della democrazia deliberativa, che si vanno affinando nel mondo contemporaneo. A tenerla in queste condizioni sono la coazione a
    ripetere e l’intenzionalità di un’élite estrattiva, che deriva benefici (non necessariamente monetari) dalla conservazione dello stato attuale delle cose.
    Certo, esistono eccezioni, significative, che ben conosco; ma sono frenate,talora soffocate, dal resto del corpaccione della macchina pubblica; sono percepite dai cittadini nei luoghi dove riescono a farsi sentire, ma sono sostanzialmente ignorate dai partiti. Insomma non fanno massa critica. Non sono sufficienti ad attivare il cambiamento".Per liberarci del "liberismo" dobbiamo mettere mano al nostro Stato è alla svelta.
    Rinaldo Rapallini

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