E’ qualcosa di più di una sensazione, ciò per
cui riteniamo che, su quella che è stata la vicenda più tragica della nostra
repubblica, ci sia ancora molto di non detto, troppi angoli oscuri che ci
negano una verità che fino in fondo non conosciamo ancora. Basta,
d'altronde, scorrere l'ultima fatica
letteraria di Ferdinando Imposimato, storico giudice istruttore del caso Moro,
per avvalorare dubbi e misteri (“I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia” -
Newton Compton Editori). Sarà certamente il tempo, come per ogni fatto della
storia, ad aiutarci a trovare, come auspicava Giovanni Moro, una verità storica
credibile capace di fugare suggestioni conseguenti a troppe domande senza
risposta.
A 35 anni
dalla sua morte ci compete, intanto,
riconoscere lo slancio ideale ed il realismo strategico con cui Moro
affrontava i temi della politica, e non solo, molti dei quali sono ancora
attuali e non risolti, con quella particolare attenzione verso la persona, che
viene prima anche della politica, secondo le fondamenta della cultura cattolico
democratica che Moro interpretava con intelligenza e passione. Aldo Moro è
stato l’uomo politico più lungimirante della nostra storia repubblicana per una
reale capacità di osservazione di quanto si muoveva nella società. Si serviva
di una grande capacità di programmare ogni passaggio dell'azione politica, che
non era mai finalizzata a se stessa, ma rimandava ad una concezione articolata
che metteva la politica al centro della vita civile senza negare l'importanza
di ciò che precede la politica stessa. Credo che sia del tutto riduttiva
l’immagine, spesso diffusa, di Aldo Moro quale “mediatore” nella politica del
suo tempo, un abile, e un po’ bizantino compositore di equilibri tra forze
diverse. Se di mediazione si trattava era sempre mediazione alta, sintesi democratica. Moro era convinto che
quanto più impegnative si presentavano le scelte politiche, tanto più dovevano
essere sostenute da un forte nutrimento culturale e che la politica senza cultura
finisce per rinsecchire nella mediocrità tattica e utilitaristica. Aldo Moro fu
per il cattolicesimo democratico oltre che un animatore, un vero “resistente”.
Nella primavera del 1960, in una situazione resa oggettivamente ambigua dal
Governo Tambroni, Moro mantenne ferma la prospettiva di centro-sinistra anche
di fronte a diffuse preoccupazioni interne alla DC, ma soprattutto davanti a
pesanti pressioni esterne. E così, pochi giorni prima del Consiglio Nazionale
della DC, l’ “Osservatore Romano” aveva pubblicato un articolo di fondo non firmato
intitolato “Punti fermi”, nel quale si dichiarava per i cattolici
l’impossibilità di principio di collaborare con i socialisti e li si richiamava
alla disciplina nei confronti della Gerarchia ecclesiastica anche nelle scelte
politiche, invitandoli a non seguire “le fragili opinioni di maestri
improvvisati”. Il quotidiano della Santa Sede annullava così ogni distinzione
tra le ideologie e le loro traduzioni sul terreno storico; cancellava
l’autonoma responsabilità del laicato cattolico nella sfera politica, secondo
la nota distinzione di Maritain (agire “in quanto cristiani” o “da cristiani”);
cercava di spingere la politica democratico-cristiana a ritroso, verso il
clericalismo. Non credo sia fuori luogo ricordare che di lì a poco i documenti
conciliari fecero propria la maritainiana distinzione dei piani tra sfera
religiosa e politica, illustrata poi con grande rigore intellettuale da
Giuseppe Lazzati. Dopo la crisi del centro-sinistra che condusse all’esito
elettorale polarizzato del 1976, occorreva dar vita ad un patto di reciproca
lealtà democratica e costituzionale. Vorrei sottolineare, a questo proposito, che il tipo di forze in campo ed
il rispetto reciproco- che pur nello scontro non mancava mai - non ci consentono
forzati parallelismi con le dinamiche attuali. Prima di altri, meglio di altri,
Moro ebbe ben chiara la percezione di quanto il sistema democratico fosse destinato a durare solo a patto di
creare progressivamente le condizioni per includere tutte le forze politiche
che avevano partecipato alla Costituzione nell'area di governo, scardinando il
blocco patologico del sistema politico ed insieme l'impossibilità di sbloccarlo
date le condizioni interne ed internazionali. La democrazia compiuta aveva per
Moro questo precipuo significato: che la gestione del potere riflettesse, non
solo una sufficiente base parlamentare, ma anche una significativa base sociale
nel Paese. Di questa esigenza si era reso conto, dal suo versante, Enrico
Berlinguer, che aveva accelerato lo strappo da Mosca ed aveva indicato in
economia un contesto di austerità che rendesse accettabile la politica dei
redditi e quindi il sostanziale superamento del classismo. Era questo l’avvio
dell’Italia verso una democrazia compiuta, attraverso il coinvolgimento di due
grandi forze ideali, dotate di profonde radici popolari, l’una e l’altra
approdate da versanti lontani, ed in tempi storici diversi, alla piena
accettazione della democrazia liberale. La prospettiva di una democrazia
fondata sulle basi comuni di un nuovo umanesimo, sul rilancio dei principi
contenuti nella prima parte della Costituzione, era prospettiva culturalmente
assai nobile ed alta, l’esatto contrario dei mediocri luoghi comuni “sul
“consociativismo”, sul catto-comunismo, coniati dalle pigri, miopi e superficiali
analisi di conservatori e clericali. Ed era l’unica risposta possibile a quella
crisi dell’ordine democratico che egli definiva “latente, con alcune punte
acute”. Moro era preoccupato per quella forma di anarchismo che il 68 aveva
lasciato in tante coscienze, specialmente nelle forze giovanili del paese, per
“il serpeggiante rifiuto dell’autorità, rifiuto del vincolo, questa
deformazione della libertà che non fa più accettare né vincoli né solidarietà”.
E’ tempo per Moro, dunque, dopo la grande stagione dei diritti, di un ritorno
alla stagione dei doveri. Si è voluta fermare sanguinosamente una politica che,
se si fosse liberamente dispiegata, avrebbe ridotto i margini sia ai disegni
rivoluzionari che alle scorciatoie autoritarie che, diremmo oggi, alle derive
populiste. Un’operazione di così ampio respiro era il contrario di un arroccato
presidio del potere. Moro aveva ammonito, talvolta con parole severe e
profetiche, che il solo rifugio nel potere – sia pure in un potere conquistato
ed esercitato legittimamente – non garantiva un lungo futuro. Che cosa è
accaduto dopo e perché si è giunti alla crisi dei partiti storici? E’ accaduto
che da quella ipotesi di aperta evoluzione delle forze ideali in campo, la
politica ha ripiegato nel recinto del potere, magari spartito a mezzadria. E,
poi, è scivolata a rimorchio di un pragmatismo, piuttosto cinico, che
perseguiva la costruzione di un nucleo garantito nel possesso delle leve di
governo, attraverso la commistione tra politica e poteri economici e finanziari.
Fu l’avvento dell’affar-politica, come diceva profeticamente Achille Ardigò. L’affar-politica,
una stagione di attualità, la conseguenza della dissipazione dei valori. Così
la cultura politica italiana è precipitata dalla rigidità delle ideologie
totalizzanti alla volubilità del pragmatismo e dell’utilitarismo, saltando il
piano proprio di una politica fondata sui valori condivisi e proclamati nella
prima parte della Costituzione: la centralità della persona, la libertà formale
e sostanziale, la pari dignità sociale di tutti, la rimozione degli ostacoli
per il pieno sviluppo dei cittadini, il diritto al lavoro, il rispetto del
pluralismo, dei nuclei intermedi della società a partire dalla famiglia fino
alle autonomie territoriali e sociali, l’apertura della scuola, la libertà
dell’intrapresa privata bilanciata dalla socialità dei suoi fini, la divisione
dei poteri nello Stato, il ripudio della guerra. Questo è il piano saltato a
piedi pari nella caduta dalle ideologie al pragmatismo. Questo è il piano al quale
occorre risalire. Non tutto è così sconfortante come appare dalle cronache.
Moro diceva che il bene non fa notizia ma c’è. Basta pensare alle generose
testimonianze collettive del volontariato, qualunque siano le motivazioni e le
sensibilità che lo motivano e lo sostengono. Se un patrimonio è stato dissipato
esso non è stato distrutto. E’ possibile ritrovarlo, ricomporlo, farlo
riemergere. Non è facile. Occorre una battaglia ideale, non un pronostico sui
tempi di conquista del potere. Condizione essenziale è di non tradire le
motivazioni etiche che stanno alla base dell’impegno politico, riscoprire la
solidarietà civile, il senso dell’appartenenza ad una collettività.
Marcello Delfino
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